La foto sulla terrazza

Silvia Cardinale Pelizzari
10 min readDec 23, 2021

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Volevo scrivere questo pezzo da anni, ma due cose mi facevano desistere.
La prima: avevo paura che Joan Didion morisse subito dopo averlo scritto.
È un pensiero folle, me ne rendo conto, è una cosa che non ho mai confessato a nessuno, e anche se suona come un atto di superbia, di narcisismo e anche di paranoia, posso assicurare che non aveva nulla a che fare con quello.
Avevo davvero paura che Joan Didion morisse, per un caso fortuito, subito dopo aver messo il punto all’ultima frase, come quando vivi una bellissima storia d’amore ma non posti nessuna fotografia sui social perché hai paura che succeda qualcosa, che tutto finisca e tu ti ritrovi a dover raccontare agli altri che l’amore che avevi professato, l’amore che avevi sventolato e condiviso, all’improvviso non c’è più, se non dentro di te.
La seconda, ben più sensata e razionale: su Joan Didion non ho niente di realmente rilevante da dire. Non mi sento in grado di analizzare la sua opera, di raccontare la struttura del suo pensiero, il suo percorso e la sua vita.
La figura, la storia e le opere di Joan Didion, sarà strano forse da dire, per me abbracciano la sfera della sensazione. Un’aura che non riesco ad afferrare ma che percepisco, che esperisco, che sento addosso, senza riuscire a dire cosa sto leggendo, come è riuscita a fare quello che ha fatto, a fare una cosa tanto semplice in apparenza, mettere insieme delle lettere che formano parole che formano frasi, in un modo che però a lei veniva come a nessun altro.

Mentre scrivo, la notizia della morte di Joan Didion è stata diffusa da un paio d’ore.
È morta.
È un corpo freddo, carne per i vermi.
Ho 24 notifiche Whatsapp, 7 di Telegram, due chiamate senza risposta e non riesco ad aprire Twitter. Una fase di negazione, direbbero i manuali.
Ma qui non c’è niente da negare. In queste due ore, ogni volta che allungo i sensi e cerco di capire cosa sento, riesco solo a pensare “Mi sento orfana”, che è una frase forte da dire, ma è l’eco di un senso di vicinanza, di appartenenza e di unione che raramente ho sento con qualcuno.
Conscia dell’impossibilità di analizzare la sua opera, di conoscere realmente qualcosa che riguardi la sua vita, decido dire cosa sia Joan Didion per me, sperando che questo mi chiarisca l’avere una sua foto sempre appesa davanti alla mia scrivania, sul muro vuoto.
Sapendo inoltre che questo pezzo sarà l’opposto di quello che ci si aspetta da qualcuno che scrive di una persona che ha ammirato: un’analisi poetica e accurata della sua scrittura, del suo modo di pensare, una riflessione sul suo uso della parola, della ripetizione, un resoconto del suo mito, della sua eleganza, dell’America di certi anni che lei ha saputo raccontare in un modo nuovo, disincantato, del sogno americano che non esiste più.

Ho deciso che non scriverò un pezzo su Joan Didion per gli altri, scriverò un pezzo su Joan Didion per me stessa.
Scriverò di Joan Didion, a due ore dalla sua morte, non per tappare il buco, ma per allargarlo, fare uscire la lava, farla fluttuare nella stanza e imparare a lasciare andare ogni cosa.

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(John Bryson / Getty)
(John Bryson / Getty)

C’è una fotografia dalla quale vorrei partire.
Ritrae Joan Didion, suo marito John Gregory Dunne e la loro figlia Quintana, sulla terrazza della loro casa a Malibù.
Tutti e tre sono appoggiati alla staccionata di legno che dà verso il mare. Quintana e John sul lato sinistro: lei ha un vestito a pois con le maniche corte (un vestito identico a quello che Joan aveva addosso il giorno del battesimo di Quintana; nella mia fantasia è lo stesso vestito, del resto Joan Didion ha sempre avuto il corpo di una bambina), i capelli lunghi e biondi, le mani unite, il viso morbido. Ha dieci anni, guarda in camera con uno sguardo che mi pare sicuro e timoroso insieme; è lo sguardo di qualcuno che si affaccia al mondo e non sa dove mettere i piedi, non sa se troverà la terra, il fango, l’erba o l’asfalto, eppure ha una scintilla negli occhi, qualcosa che può guidarla anche quando la strada sembrerà nascosta.
John ha una giacca pesante a quadri, sotto la quale porta un maglione nero, che sbuca dai polsini. Nella mano destra tiene saldo un bicchiere e anche lui guarda in camera; lo sguardo forte e senza cedimenti, accenna un sorriso che stona con la sua figura così seria. [Com’è possibile — mi sono sempre chiesta — che Quintana sia in maniche corte e lui con un maglione e una giacca di lana? Che temperature strane ci sono in California?]

Joan Didion ha i gomiti appoggiati nella sporgenza della staccionata. Indossa un vestito che la fotografia restituisce plissettato; tra l’indice e il medio della mano destra tiene una sigaretta a metà, a venti centimetri dal suo gomito sinistro c’è un bicchiere pieno di ghiaccio e gin, appoggiato proprio lì dove il legno forma un angolo retto, per continuare fino alla fine della terrazza.
Joan Didion probabilmente ha appena dato un sorso, si gode la sigaretta della golden hour mentre qualcuno scatta quella foto.
E li guarda.
Joan Didion non guarda in camera, è l’unica dei tre che non fissa l’obiettivo. Guarda suo marito John e sua figlia Quintana, anche se il viso non è girato verso di loro, li guarda con la coda dell’occhio, come a tenerli sotto la sua protezione, a non perderli di vista, come se la mancanza del suo sguardo su di loro potesse farli sbriciolare, smaterializzare, sparire nel tempo di un clic.

La foto è del 1976, Joan Didion ha quarantadue anni e ha pubblicato due romanzi, Run River e Plays as it Lays, oltre a una raccolta di saggi che negli anni diventerà iconica, Slouching towards Betlehem, un concentrato di tutto ciò che l’America non è più, su tutto ciò che ha perso, sull’altro lato delle cose.
Sta lavorando al suo romanzo migliore, A book of common prayer.
La immagino sommersa dai fogli. La immagino analizzare la struttura di certe scene per renderle migliori. La immagino pensare a Charlotte Douglas, la protagonista della storia, e alla sua struttura molecolare della proteina.
Joan Didion è felice, ha una vita felice. Non sa ancora che Il centro non reggerà, che la sua vita come l’aveva immaginata fino a quel momento non esisterà più, diventerà un buco nero improvviso, qualcosa a cui non si può tornare.
Eppure ogni volta che guardo questa foto, il suo sguardo su di loro, sulle persone che ama, una sensazione strana si fa strada sotto la mia pelle, la sensazione che qualcosa in lei fosse già molto chiaro fin da allora.
Che la vita cambia in un momento, la vita cambia in un istante.
Che è la perdita il contrario della felicità.
Che in ogni suo libro avrebbe scritto di questo.
Di quello che si può perdere e di come si possa sopravvivere da quel momento in avanti.

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La persona che mi ha messo in mano per la prima volta un libro di Joan è stata Giulio Passerini. Credo fosse il 2013 o il 2014, ero l’ufficio stampa di una rivista che si chiamava Finzioni e mi arrivò un pacchetto a casa. Il libro era Diglielo da parte mia, ovvero A book of common prayer e io ricordo il senso di straniamento che provai leggendolo, quel modo di piazzarti dentro una storia da zero a cento in tre secondi, e parlarti come se tu conoscessi già ogni cosa, senza spiegare niente, senza contestualizzare niente. Ricordo di aver pensato che era come arrivare nel mezzo di una festa quando tutti sono già lì da due ore, e ti parlando di cose successe in quelle due ore come se tu fossi stata in mezzo a loro, con quella naturalezza, saltando i dettagli perché non ce n’è bisogno, mentre tu li guardi con gli occhi sgranati pensando che forse ti hanno confusa con qualcun altro, che non stai capendo. Ma poi, a forza di stare lì, ascoltare i loro racconti, sentirli pronunciare nomi e raccontare gesti, metti insieme i pezzi, le relazioni, i movimenti; il quadro si fa chiaro, la nebbia scompare, tutto è limpido come il cielo di giugno e ti senti finalmente parte di qualcosa senza arrancare più.
Quando ho letto di Grace Strasser-Mendana, nata Tabor, parlare di Charlotte Douglas, quando ho letto di Grace Strasser-Mendana che reclamava la struttura molecolare della proteina che definiva Charlotte Douglas, ho capito che avevo nelle mani una bomba a mano, non un libro. Quando ho letto della luce di Boca Grande, com’è netta, quant’è cruda e immobile. Quanto è bianca a mezzogiorno mi sembrava di vedere un ologramma diventare reale, materico, i muscoli mettersi insieme, i nervi, le arterie, i flussi sanguigni, l’epidermide. E anche se all’inizio non capivo quasi niente, c’è stato il clic di un momento preciso in cui ogni pezzo si è messo insieme, e io ero a una festa in ritardo sapendo tutto ciò che era successo anche in mia assenza.
Poi è arrivato Democracy, di cui non ricordo quasi niente.
Non ricordo quasi niente di nessuno dei libri di Joan Didion, l’ho già detto prima: la trama è nebulosa, claudicante. Ciò che è forte è il ricordo di me che leggo quei libri, dell’esperienza di lettura, di come mi sono sentita io mentre leggevo lei, ogni volta.
Ricordo che la protagonista si chiama Inez Victor. Ricordo che c’è Saigon, c’è Honolulu. Ricordo di aver pensato a Democracy ogni volta che ho letto la parola Honolulu in Blue Nights (e le volte in cui in Blue Nights viene citata Honolulu sono molte). Ricordo una vita che si fa a pezzi, ma non ricordo perché. Ricordo il caldo del sud est asiatico sentirmi salire dalla gola.
Forse è stato allora, subito dopo, il momento in cui ho letto L’anno del pensiero magico, il suo saggio (è un saggio?) più famoso. Ma forse prima c’è stato Prendila così. Sì, dev’esserci stato per forza prima Prendila così, ci devono essere state Maria Wyeth, la clinica psichiatrica, la figlia malata Kate, perché ricordo chiaramente che allora quel libro mi parve bello ma mi passò davanti come una stella cadente, e quando più tardi lessi prima L’anno del pensiero magico e poi Blue Nights, quando conobbi la storia di Quintana — la figlia che aveva adottato con il marito John e che è nata il mio stesso giorno, diciassette anni prima di me — , mi si fermò il cuore al pensiero che Joan avesse scritto di una donna californiana con una figlia malata che non vede quasi mai, di una malattia infettiva e di lunghi viaggi in autostrada, tentando di tenere a bada un baratro che si faceva sempre più vicino.

Il libro è del 1970, Quintana è nata nel 1966 e si è ammalata nel 2004, la fotografia sulla terrazza di Malibù è del 1976.
Joan Didion lo sapeva?
Come faceva a saperlo?
Quanto era grande il terrore di perdere ciò che più amava ancora prima di sapere che l’avrebbe perso?
Era per quello che teneva sotto il suo occhio attento suo marito e sua figlia?
La figlia di Charlotte Douglas persa “a beneficio della Storia” era Quintana?
Quintana era Kate?
Come si può scrivere ossessivamente del terrore della perdita prima di perdere ogni cosa?
Le nostre paure arrivano sempre prima di noi?

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Ci sono moltissime cose che amo di Joan Didion. Sono sempre tantissime le cose che amiamo degli scrittori e delle scrittrici che amiamo. Ne dico due.
La prima: le cose che ha scritto e che reputo brutte.
Il suo ultimo desiderio, per esempio, per me è un romanzo brutto, e mi piace rileggerlo perché mi ricorda l’imperfezione di una scrittrice che il tempo, la storia, la sfortuna, hanno messo su un piedistallo, sulle copertine, nelle pubblicità di moda. Joan Didion era una dea imperfetta, che ha scritto anche libri brutti, ha scritto anche articoli tremendamente noiosi, ha scritto anche film qualitativamente discutibili.
E quando nel documentario che suo nipote ha fatto su di lei, Joan dice che trovare a San Francisco, mentre scriveva un pezzo sugli hippies, un bambino di cinque anni con la bocca bianca sotto acido è stato “pure gold”, c’è una parte di te che tentenna, di fronte a quel suo rigore, di fronte alla sua voglia di raccontare una storia e di essere felice di avere tra le mani un aneddoto come quello. È la cosa che ti fa vedere la sua parte oscura, quella non innocente e non pulita, ed è la stessa che ti fa pensare “Non potrò mai fare la scrittrice perché non potrei mai pensare una cosa del genere”. E continui a pensarci per settimane, sperando di fare tua quella cosa, quel fuoco, anche se sai che non ti appartiene.
La seconda: la scrittura di Joan Didion non si può imitare.
Se ti sforzi puoi scimmiottare la scrittura di Philip Roth, puoi scimmiottare la scrittura di Jorge Luis Borges, ad essere bravi si può provare a scrivere, portando all’eccesso i loro stili, la scrittura di chiunque.
Provate a imitare la scrittura di Joan Didion: non ci riuscirete.
Perché per imitare la scrittura di qualcuno bisogna prima farla propria, capirne i segreti e i trucchi, gli eccessi e i punti deboli, e con Joan Didion non ci si riesce, sai che c’è un trucco ma non lo riesci a individuare e il gioco è troppo bello per togliergli gli occhi di dosso, non ti importa più di trovarlo, il trucco, tanto è troppo sottile, troppo ben fatto, per poterlo replicare.
L’oro, in certe mani, luccica molto più che in altre.

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Joan Didion ha sempre parlato, me ne accorgo ora, solo di mondi che cadevano a pezzi. Frantumi di qualsiasi cosa sparsi sul pavimento, mentre fuori il Santa Ana soffia secco.

Il mondo di Charlotte in Diglielo da parte mia, quello di Inez in Democracy, quello di Maria Wyeth in Prendila così, quello di El Salvador in Salvador, quello dell’America in Verso Betlemme e Miami; il proprio, di mondo, in L’anno del pensiero magico e Blue Nights.
Aveva il timore che ogni cosa cadesse a pezzi, che ogni cosa sarebbe andata a pezzi dopo, e ha esorcizzato la sua più grande paura replicandola sempre, ad ogni pagina, personaggio per personaggio, centimetro per centimetro, sguardo per sguardo, ogni volta che qualcuno scattava una foto e lei sentiva che in un attimo le cose si potevano sgretolare davanti a sé.

La notizia della morte di Joan Didion è stata data da quattro ore, ora.
Morta. Un corpo freddo. Carne per i vermi.
Questo pezzo che volevo scrivere da anni non parla di niente, non lo rileggo perché ho paura che sia schizofrenico, e forse è solo il mio personale modo di esorcizzare la paura di un mondo come lo conoscevamo che è andato a pezzi e che non c’è più.
Perché Joan Didion non c’è più.

Il centro non ha retto, non poteva reggere.
Io da oggi mi sento orfana, aveva ragione lei.

Milano, 23 dicembre 2021.

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Silvia Cardinale Pelizzari
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Written by Silvia Cardinale Pelizzari

Mi bocciano sempre gli articoli emotivi.

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